L’attaccante dell’Inter ha preso una decisione: “Mi fermo. Ho perso la felicità di giocare a calcio. Moratti è come un padre per me, ma non ce la faccio più”
Esiste una sola città al mondo dove nell’arco di una giornata si può spendere una fortuna in un ristorante, sfasciare un’auto a 120 all’ora sul lungomare, andare a trovare una vecchia zia che vive in un tugurio, bere due casse di birra con gli amici narcotrafficanti lì a fianco, e in nottata organizzare un’orgia con otto ragazze e un trans che di solito sfila sulle passerelle d’alta moda: tutti allegramente sorvegliati da gorilla per tener lontani i curiosi.
Luoghi comuni terribili circondano Rio de Janeiro. Luogo metafora dove tutto è possibile, tortuosa come gli enigmi nella testa di Adriano, che qui è rifugiato da ormai tre settimane. E dove potrebbe restare ancora a lungo: ieri pomeriggio in una conferenza stampa all’hotel Windsor nel quartiere Barra da Tijuca, dove abita, ha annunciato che smetterà di giocare a calcio:
Mi prendo una pausa perché giocare a calcio non mi dà più allegria.
Quanto lunga, la pausa?
Può essere uno, due , tre mesi», ma anche di più.
In ogni caso niente cliniche:
La mia clinica sono la mia famiglia e il mio Paese. Rinuncio anche ai soldi.
Adriano ha detto di non avere problemi con l’alcol, di non essere malato né depresso. Infine un pensiero per Massimo Moratti: è come un padre, ma il legame non è abbastanza forte da spingerlo a lasciare il Brasile.
È a casa da solo, nella villona di Barra», «No, è con gli amici di infanzia a Vila Cruzeiro, a far baldoria.
Cambia poco, se l’ascensione al cielo ha fatto di te un Garrincha e non un Pelé, un Edmundo invece che un Falcão. Un piede ce l’hai sempre dove sei nato, e non solo per distribuire caramelle ai bambini davanti alle telecamere, con lo sponsor buonista.
Grappoli di ex «fidanzate» che dicono di sapere tutto, per guadagnare un titolo, e soprattutto una fotografia a corredo. Fa parte del gioco: se sei un calciatore famoso, ti piacciono le donne che girano attorno ai calciatori famosi. Quelle che tentano di fregarti nel motel, facendo evaporare i preservativi all’ora x: non si sa mai che spunti una sorpresa in grado di sistemarti per la vita. Negli anni d’oro di un altro centravanti nerazzurro di talento, a Rio si diceva che «Ronaldinha» era una professione, non un nome. Scherzando, ma nemmeno troppo.
Adriano non è riuscito a evitare nulla del «purgatorio do caos», dolori intensi e piaceri estremi, voglia di vincere e poi di distruggere tutto. A partire dall’incubo di se stesso bambino, disperato alla vista del padre colpito da una pallottola nella favela durante una sparatoria. Almir era un omone forte, come il figlio, e sopravvisse per anni con il proiettile conficcato nel cranio. Alla sua morte, avvenuta infine cinque anni fa, si fa risalire l’inizio di tutti i problemi di Adriano, le lunghe depressioni, affogate nella birra, nella nottate in discoteca a Milano (che a Rio poi definisce mortalmente noiose), la voglia di tornare in favela a scherzare con gli amici. Dove lo aspettano sempre Jadir, il gestore del chiosco a lato del campetto in polvere di Vila Cruzeiro, oppure Mauricio detto l’archivista, perché conserva tutti i ritagli dell’idolo, fino ad altri coetanei che nel frattempo hanno risalito la scala del comando con altri mezzi che non fossero i piedi. Non tutti: solo quelli sopravvissuti alla morte o alla galera.
Luogo di violenza inaudita, la favela, ma comunità forte e persino felice. Lecito e giusto andarsene a vivere meglio, lungo l’oceano, imperdonabile è non tornare mai. «Ragazzi, è arrivato Pipoca!». Significa popcorn, in portoghese, Adriano ne mangiava così tanto da bambino — lo vendeva una zia con il carretto ambulante — che ancora lo chiamano così quando arriva.
Poi Adriano è anche il ragazzone in bermuda e ciabatte fotografato ieri mattina sul lungomare mentre comprava i giornali, forse per saperne di più sul suo suicidio professionale. E quello che paga per tutti al ristorante Fratelli, il suo preferito vicino casa. Tortelli con ripieno di pollo e noci in salsa rosa, sempre lo stesso piatto, e mai più di un bicchiere di vino, assicura lo chef italiano Massimo Torresan. «Timido e gentilissimo», racconta.
Questo è l’Adriano familiare, con la mamma, fratelli e cugini, mai una parola o un gesto fuori posto. Tavolata di neri e mulatti, in un salone dove dominano i colori chiari della classe agiata del quartiere di Barra da Tijuca. Gli «emergenti», li chiamano a Rio: sognano la villa o il condominio esclusivo, in un angolo della metropoli che sembra Miami e non ci sono mendicanti perché nessuno gira a piedi.
Nessun calciatore si sognerebbe mai di vivere in un altro posto che non sia Barra. Eppure è proprio qui dove più è difficile capire Adriano, peccatore della religione del successo e dissipatore della sorte. «Va aiutato», dice il coro che arriva dall’Italia, calciatori, allenatori, psicologi assortiti. «Faccia un po’ quello che gli pare», si risponde dal Brasile pagano, dove lo scandalo ha un’altra accezione. La «festinha» allegra ha indignato per un solo motivo: era alla vigilia del raduno della Seleção, e poi si è pareggiato con l’Ecuador. Vergogna!