Negli ultimi ed abbastanza problematici tre anni e mezzo, Adriano Leite Ribeiro hanno provato in molti ad aiutarlo.
C’hanno provato i suoi allenatori, Roberto Mancini e Josè Mourinho: il primo con diverse iniezioni di fiducia tipo il farlo partire titolare anche in circostanze in cui la precaria condizione ne scoraggiava vivamente l’utilizzo o concedendogli la possibilità di ritrovare il sorriso raggiungendo per alcune settimane le persone care in Brasile, il portoghese facendogli più da genitore che da tecnico e motivandolo come pochi altri avrebbero saputo fare.
C’hanno provato i compagni di squadra che, a dispetto delle ridicole dicerie che lo volevano inviso al folto gruppo argentino presente ad Appiano Gentile, mai gli hanno fatto mancare appoggio e preziosi consigli.
C’ha provato la società Inter, con a capo l’indulgente presidente Massimo Moratti, che gli ha costantemente perdonato ogni forma di cattiva condotta (e dal 2006 ad oggi, tra ritardi e pecche di svariato genere, sono state parecchie) seguitando a riversargli rinnovata speranza e fiumi di milioni sul conto corrente.
Ed infine c’hanno provato i tifosi, perennemente pronti a sostenerlo e a dimostrargli affetto sia che il mastodontico sudamericano fosse reduce da una splendida doppietta nel derby oppure venisse da mesi in cui, anziché la rete avversaria, a gonfiarsi era unicamente la propria pancia.
Adriano invece, probabilmente vittima di un’infida malattia della psiche che lo ha portato ad avere sempre meno rispetto e stima di sé, ha ripagato questa gente solo con una serie d’ininterrotti pentimenti e vane promesse di non ricadere più negli antichi errori: situazioni a cui facevano occasionalmente seguito alcune buone prestazioni, adatte esclusivamente ad illudere che presto sarebbe finalmente tornato il travolgente campione apprezzato soprattutto nelle stagioni a cavallo dell’improvvisa morte del padre, avvenuta nell’estate 2004.
Una sfilza di entusiasmanti performance che allora gli erano valse l’appellativo “Imperatore” e, attraverso un’incontenibile potenza fisica associata all’agile bravura brasiliana e ad un mancino al fulmicotone, l’avevano guidato appena ventiduenne a poter essere annoverato tra gli attaccanti più forti e completi al mondo.
Un talento già di per sé consistente che però aveva il non semplice compito di continuare a crescere – principalmente a livello tattico – e confermarsi nel tempo, di dover gestire le inevitabili pressioni in aumento da parte dei mass-media (i quali, specie negli ultimi anni, si sono spesso e indelicatamente concentrati soltanto sulla sua poco professionale vita privata) ed al momento stesso l’obbligo morale di rimanere coi piedi ben piantati a terra: se a ciò si somma la nostalgia per i famigliari lontani e la malinconica sensazione di solitudine realizzata qualche periodo dopo la scomparsa dell’amato papà Almir, si può comprendere, ma non giustificare, cosa lo abbia spinto ad un’esistenza esageratamente sregolata sposatasi poi con l’abuso di alcool.
Un vincolo che, attualmente, rappresenta un grave problema pure per giovani meno famosi e benestanti del calciatore carioca, convinti di poter realmente divertirsi o scacciare i brutti pensieri con l’effimero quanto devastante aiuto di bevande ad alta gradazione.
Portare in testa una corona, metaforicamente raffigurata dal raggiungimento di successo e ricchezza, non è mai stato facile: lo è ancora in misura minore se la persona che l’arriva ad indossare proviene da un’infanzia assai modesta spesa in una delle tante disagiate favelas della natia Rio de Janeiro, città di grande attrazione turistica che storicamente non conosce vie di mezzo (prosperità per pochi e povertà per molti, carnevale festeggiato con sfarzo che si mischia ai frequenti omicidi per un pugno di soldi) e che da lì, in una giornata agostana d’inizio millennio, ha fatto partire Adriano alla conquista dell’Europa.
Fu infatti la sera del 14 agosto 2001, teatro il leggendario “Santiago Bernabeu” di Madrid, quella che fece in modo che l’esordio in maglia nerazzurra dell’ignoto ragazzone di Vila Cruzeiro restasse indelebile tra i tifosi interisti che videro la prestigiosa amichevole tra la truppa di Hector Cuper ed il temibilissimo Real: entrato ad una decina di minuti dal termine sul risultato di 1-1, il diciannovenne sudamericano, appena prelevato dal Flamengo in cambio della seconda metà del cartellino di Vampeta, sbalordì tutti con un magnifico gol decisivo su calcio di punizione ed una serie di altre giocate d’altissima scuola degne di un vero predestinato. Un predestinato che nel giro dei successivi ventiquattro mesi, trascorsi in parte a Milano ed in parte in prestito a Firenze e Parma, si sarebbe guadagnato l’ampia considerazione e le lodi della totalità degli strabiliati addetti ai lavori e non solo.
Poi, proprio mentre l’Inter era all’alba di uno dei periodi più luminosi e gaudenti della sua storia che è culminata lo scorso week-end con l’ottenimento del meritatissimo diciassettesimo scudetto, in avvio di 2006 l’atleta verdeoro iniziò ad infarcire il curriculum di eccessive nefandezze: allenamenti saltati o svolti male a causa delle precedenti notti brave che andavano a sommarsi ad abitudini alimentari non consone ad un professionista di tali proporzioni, che stava sempre più affidandosi a birre e drink vari come estremo tentativo di sopperire alla felicità perduta di un giovane a cui fama e denaro parevano esistere soltanto per ricordargli le responsabilità che aveva – e che da tempo stava disattendendo – ed amplificarne quindi quell’inquieto senso d’insoddisfazione chiamato depressione.
Da allora ad oggi, il percorso agonistico dell’“Imperatore” ha alternato troppi momenti di buio a saltuari lampi di confortante ripresa, utili solo ad abbagliare e a ribadire l’incapacità della punta carioca di non riuscire più ad essere stabilmente all’altezza delle enormi potenzialità fisico-tecniche possedute.
Il calciatore, perlomeno a certi livelli, non sarà forse più recuperabile (la recente rescissione del contratto con la Beneamata ed il susseguente ritorno nel poco competitivo torneo brasiliano ne sono probabilmente la prova): l’uomo, invece, è obbligatorio salvarlo.
L’unico augurio da fare adesso ad Adriano è che, attraverso una ritrovata serenità, possa debuttare nella sua nuova fase di vita come fece otto anni fa a Madrid: con immensa personalità e forza interiore, stupendo tutti e strappando infiniti applausi.