Il prossimo 9 novembre, ormai, saranno trascorsi dodici anni esatti dalla scomparsa del capostipite di tutti gli allenatori di moderna generazione: quel giorno del 1997, infatti, si spegneva nel reparto rianimazione dell’ospedale di Venezia Helenio Herrera, colui che, con i suoi modi tanto magnetici quanto istrionici e le sue teorie certamente avanguardistiche ma spesso discusse, per primo avrebbe dato scintillante importanza alla figura del mister.
Figura che in Italia, fino all’avvento dell’uomo venuto alla luce a Buenos Aires nel 1910 (nonostante più passaporti indicassero nel 1916 la data di nascita) ma cresciuto in Marocco ed affermatosi in Francia come difensore di medio livello ed in Spagna nelle vesti di tecnico di successo, era da sempre esiliata negli angoli semibui del palcoscenico calcistico.
Per i suoi estimatori rimarrà in eterno il geniale ed orgoglioso trainer che, con sfrontata competenza ed eccezionali doti di psicologo, ha plasmato l’Inter più forte di ogni tempo.
Per i suoi detrattori, invece, sarà costantemente ricordato come un polemico e megalomane individuo che amava accentrare su di sé qualunque merito e che ha avuto la sola fortuna d’imbattersi in un presidente che gli ha permesso d’avere a disposizione un nucleo di fuoriclasse (su tutti il terzino-goleador Giacinto Facchetti, gli illuminati centrocampisti Luis Suarez e Mario Corso, l’estroso attaccante Sandro Mazzola) con cui sarebbe stato impossibile non vincere.
Da entrambe le fazioni, tuttavia, sarà perennemente rievocato alla stregua di un personaggio che ha ridato entusiasmo e curato il football nostrano dalla condizione depressa e malaticcia del dopoguerra, che soltanto un “Mago” – di soprannome e di fatto – come Herrera poteva guarire.
Arrivato a Milano nell’estate 1960 reduce dai recenti trionfi con il Barcellona, tra la perplessità di alcuni e l’esaltazione di molti altri, il neo-allenatore si presenta come colui che intende cambiare la mentalità del calcio del nostro Paese e dell’Inter in particolare, al cui timone c’è il generoso petroliere Angelo Moratti che da cinque stagioni insegue vanamente la conquista di un titolo e che per strappare “HH” alla concorrenza lo ha letteralmente ricoperto di denaro (ingaggio record di 45 milioni annui più eventuali premi doppi rispetto alla squadra), argomento al quale don Helenio risultava da sempre assai sensibile.
Il suo impatto con l’intero mondo del pallone tricolore è, da subito, di una dirompenza inaudita: fa appendere cartelli nello spogliatoio recitanti slogan assolutistici tipo “nel calcio chi non dà tutto non dà niente”, sottopone i fino ad allora disabituati giocatori a dieta ferrea ed allenamenti di un’intensità mai vista improntati quasi esclusivamente sulla velocità, introduce la consuetudine dei ritiri, fa fuori un campione prediletto dal popolo come Antonio Valentin Angelillo in nome dell’osservanza delle sue regole, ne crea di nuovi attingendo direttamente dal settore giovanile, si esibisce in proclami sensazionali sin dall’inizio dell’avventura (“Venceremo todo y contra todos“, “Milan e Juve non esistono“, “Sono solo colpevole di essere il più bravo“) dimostrando immediatamente di possedere inattaccabile autostima e sicurezza di sé, probabilmente le maggiori qualità che servono ad una persona che voglia amarsi ed avere successo.
Il presidente, passati i primi due tornei dedicati all’assimilazione e all’assestamento dei metodi herreriani (ostacolati, in verità, anche da qualche circostanza “anomala” di troppo, come ad esempio l’assurda ripetizione del match-scudetto con la Juve dell’aprile 1961, inizialmente dato vinto a tavolino all’Inter causa invasione di campo dei tifosi bianconeri), comincia però ad essere stanco delle tante promesse del costosissimo tecnico sudamericano a cui puntualmente non seguono i fatti. I dubbi di Angelo Moratti, che nella tarda primavera 1962 l’avevano pure indotto a pensare all’emergente allenatore del Mantova Edmondo Fabbri, verranno comunque presto fugati dall’avvio di un ciclo romanzescamente fenomenale: tre scudetti (1963, 1965, 1966), due coppe Campioni (1964, 1965), due coppe Intercontinentali (1964, 1965), un titolo italiano svanito nello spareggio contro un Bologna in precedenza penalizzato e poi discutibilmente riabilitato dal’accusa di doping (1964), un secondo gettato alle ortiche all’ultima giornata come peraltro accaduto per la massima finale europea del medesimo anno (1967), un duraturo periodo d’incontrastato vertice in cui vennero sbaragliati avversari del calibro della Juventus di Sivori, del Milan di Rivera, del Real Madrid di Puskas e Di Stefano, del Benfica di Eusebio.
L’Italia, l’Europa ed il Mondo per un lustro sono di assoluta dominazione nerazzurra, portano indelebilmente griffato il nome della meravigliosa squadra di Herrera e Moratti, artefici di una compagine che fino a quell’epoca si chiamava Inter e che da lì in poi, negli anni in cui una Milano sempre più popolata ed in potente sviluppo si entusiasmava per “Il ragazzo della via Gluck” cantato da Celentano, sarebbe eternamente stata ribattezzata “Grande Inter”.
Unica nella storia del calcio di casa nostra, assieme al Torino di Valentino Mazzola, ad essere accostata all’aggettivo “Grande”: un gruppo magico, guidato appunto da un “Mago” nomade e carismatico, presuntuoso e vincente. Uno che, dopo averla condotta per otto leggendarie stagioni all’impetuoso grido di “Vamos a ganar!“, lascerà spontaneamente il club meneghino – prima di ritornarvi per cinque sfortunati mesi, seguiti alla quinquennale esperienza romanista, nel 1973 – a poche ore dalle dimissioni del presidente, in un 18 maggio 1968 ricco di struggente malinconia per la gente che, in un colpo, perdeva due degli uomini più importanti e gratificanti della lunghissima e gloriosa saga del Biscione.
Da allora, Herrera è ancora adesso il solo tecnico ad aver portato la coppa Campioni sulla sponda nerazzurra del naviglio, quella coppa che oggi il popolo interista chiede al portoghese Josè Mourinho, per molti versi simile al predecessore “HH” (straordinarie e coraggiose doti di comunicatore, palmares e conto in banca invidiabili, lavoratore assai scrupoloso ma concretamente poco incline al calcio-spettacolo, polo d’attrazione ed autentico leader di spogliatoio) ed a lui accomunato, oltre che dal fatto di dividere l’opinione pubblica in maniera pressoché netta tra chi lo adora e chi lo detesta, dall’essere entrambi entrati a forza nella storia della Beneamata: uno l’ha poi mirabilmente scritta, l’altro ha da circa un anno e mezzo iniziato a farlo.