La vendetta, specialmente in un periodo dell’anno torrido come l’estate, è indubbiamente un piatto che va servito freddo: Roberto Baggio, magari, l’avrà pensato all’atto della sua recente nomina a presidente del Settore Tecnico della FIGC, un’investitura generata dalle ceneri del più fallimentare e penoso Mondiale mai disputato dalla Nazionale di calcio italiana in un secolo di storia.
Una figuraccia inscenata in Sudafrica lo scorso giugno dagli uomini guidati dal C.T. Marcello Lippi, proprio l’allenatore che più di tutti ha mostrato scarso feeling con il maggior fuoriclasse nostrano dell’ultimo ventennio, quel Baggio al quale il cocciuto mister viareggino, ai tempi dell’Inter 1999/2000, preferiva addirittura l’impacciato e fuori posizione Paulo Sousa nel ruolo di trequartista alle spalle del tandem d’attacco.
Un atteggiamento ostile, secondo quanto scritto da Roby nell’autobiografia “Una porta nel cielo”, dovuto quasi esclusivamente al netto rifiuto da lui opposto alla squallida offerta lippiana di fungergli da spia all’interno dello spogliatoio: un’onesta resistenza che però per il “Divin Codino”, in quella fase nerazzurra spesso recluso in panchina e a cui l’indispettito ex coach bianconero pare negasse persino i meritati applausi dei compagni per le sontuose giocate regalate in allenamento, si rivelò l’inizio della (ad alti livelli) ingiusta fine.
Storia di un (non) rapporto nato nella Juventus 1994/1995 e deflagrato un lustro più tardi, allorché a Milano approdò lo spigoloso trainer toscano che, anche per mezzo d’incomprensibili scelte estive tipo quella di far cedere il prezioso gladiatore del centrocampo Diego Simeone per favorire l’acquisto di Vladimir Jugovic oppure costringendo a terminare anzitempo la prestigiosa carriera di un’esemplare e leggendaria bandiera della Beneamata come capitan Beppe Bergomi, portò a classificarsi solamente quarta una squadra ricca di campioni in vari ruoli (oltre a Baggio, era infatti presente in rosa gente come Peruzzi, Panucci, Javier Zanetti, Seedorf, Recoba, Mutu e, seppur a disponibilità ridotta per i ripetuti e gravi infortuni, l’invidiatissima coppia offensiva Ronaldo–Vieri che alimentava ulteriormente i sogni dei già elettrizzati tifosi del Biscione): ciò, causa folle annata precedente, nonostante il cammino verso l’obiettivo tricolore non fosse nemmeno appesantito da infrasettimanali impegni europei.
Una delle stagioni più deludenti della gestione di Massimo Moratti – soprattutto se paragonata alle enormi ed entusiaste attese di quell’indimenticabile agosto 1999 contraddistinto, tra le molte altre cose, da una straordinaria eclissi totale di sole e dall’exploit canoro della norvegese Lene Marlin con il singolo “Unforgivable Sinner” – si chiudeva con un faticoso quarto posto conquistato soltanto nello spareggio con il Parma, in una serata veronese di fine maggio che ribadì per l’ennesima volta la grandezza del calciatore veneto, autore di una spettacolare quanto decisiva doppietta nel 3-1 finale a conclusione di un’inaccettabile periodo che lo aveva comunque sempre visto comportarsi da professionista irreprensibile, e l’inadeguatezza di un allenatore come Lippi: quest’ultimo, guadagnata la riconferma grazie alla maestosa prestazione del “nemico” contro gli emiliani, mise il presidente nella condizione di non rinnovare il contratto in scadenza all’ex Pallone d’Oro per poi, nei pochi mesi successivi in cui sedette ancora sulla panchina interista, caldeggiare ed ottenere l’arrivo in nerazzurro di giocatori dalla imbarazzante mediocrità che rispondevano ai nomi di Ballotta, Cirillo, Macellari, Brocchi, Vampeta, Peralta e Hakan Sukur.
Una situazione equiparabile al recente torneo sudafricano, inaspettatamente caratterizzato da un epocale quanto comprensibile disamore mostrato da parecchi verso Cannavaro e compagni, dove agli “ingombranti” uomini di talento sono stati preferiti atleti dalla qualità eufemisticamente non eccelsa oppure ad un passo dal chiudere con affanno la carriera.
Al Baggio in versione dirigente, ed al neo Commissario Tecnico Cesare Prandelli, il difficile compito di tornare dunque a riscuotere simpatie e riportare i quattro volte iridati a livello della propria storia: una storia che sul rettangolo verde Roby ha vissuto per sedici lunghi anni (56 presenze e 27 reti) e per tre emozionanti Fifa World Cup.
La prima fu quell’Italia ’90 che fece conoscere a tutto il pianeta la smisurata classe dell’allora ventitreenne appena tumultuosamente passato dalla Fiorentina alla Juventus, classe che ben si sposava con la poesia delle notti magiche di un gruppo azzurro brillante e di formidabile valore, orgogliosamente trascinato da un popolo con occhi e cuore sintonizzati sulle affascinanti immagini dell’edizione più ricca di stelle che il calcio ricordi.
L’ultima fu Francia ’98, dove un assurdo dualismo con Alessandro Del Piero non permise a Roberto di essere costantemente titolare nonostante fosse reduce da una stagione fantastica a Bologna, che lo condusse poi dritto alla corte di Moratti, signorile patron che già nell’estate 1995, mentre andava man mano ad affievolirsi il vezzo del codino che invece furoreggiava ad inizio Novanta nelle giovani capigliature non ancora in età da motorino, ne sfiorò fortemente l’acquisto.
In mezzo USA ’94, la manifestazione più contrassegnata dall’asso vicentino che, a dispetto del cognome curiosamente identico ad un celebre quartiere milanese, impresse l’indelebile marchio del campione anche oltreoceano: con cinque gol ed alcune prestazioni magnifiche scortò una compagine nient’affatto spettacolare sino ai rigori della finale contro il Brasile.
Serie di tiri dal dischetto che, così come nella semifinale 1990 e nei quarti 1998, risultò nuovamente fatale all’unico italiano ad aver segnato in tre diverse rassegne mondiali ed all’intera squadra, guidata all’atto conclusivo quasi esclusivamente per merito delle prodezze dell’acclamato fantasista che aveva reso irrefrenabile l’entusiasmo di una nazione compattamente incollata, se necessario pure a tarda sera, alle gesta dei ragazzi del pedante C.T. Arrigo Sacchi protagonisti nella estenuante canicola statunitense.
Ora i tifosi azzurri possono ragionevolmente tornare a sognare tipo quando il riservato Roby, fervente buddista già ambasciatore FAO e Cavaliere della Repubblica, si faceva trasversalmente ammirare per le sue stupende punizioni dirette all’incrocio dei pali, per la magia dei dribbling ubriacanti, per la precisione nei tiri dal dischetto, per la sfavillante tecnica posseduta, per gli infiniti gol ed assist di pregevole fattura, per la smisurata forza d’animo con cui affrontava e prodigiosamente superava i dolorosi infortuni che gli hanno sovente martoriato le ginocchia e paventato prematuri addii agonistici.
Seppur costellato da tremende cicatrici sugli arti inferiori, seppur ostacolato in modo inammissibile da alcuni allenatori che amavano credersi superbamente celebri ed in Baggio vedevano probabilmente un’abbagliante minaccia, seppur l’esigua bacheca di trofei conquistati con i vari club non gli abbia adeguatamente reso merito: a sei anni di distanza dalla sua ultima gara da professionista, Roberto è finalmente rientrato in quella galassia del pallone che, anche se parzialmente ripulito dalle sacrosante condanne dell’estate 2006, soprattutto nella cariche dirigenziali continua ad aver assoluto bisogno di gente trasparente, appassionata e tenace quanto lui.
“Non è forte colui che non cade mai, ma colui che cadendo si rialza” affermava Goethe: la frase di uno dei più grandi letterati di sempre, quindi, per raccontare uno dei più grandi numeri dieci di sempre.
Due massimi geni da gustarsi freddi, come la vendetta.
Veramente un ottimo articolo, piacerebbe anche a Lippi! Davvero complimenti, x una volta condivido pienamente quanto detto. Come spesso capita nei tuoi articoli metti una perla di saggezza, questa volta l’hai messa alla fine ed è una delle mie massime preferite:“Non è forte colui che non cade mai, ma colui che cadendo si rialza”. Degno di lode!
E’ BELLISSIMO….CONDIVDO