Ormai, fra i tifosi nerazzurri, è un pensiero sempre più comune: l’avvocato Giuseppe Prisco, leggendario vicepresidente interista di cui in questi giorni ricorre il nono anniversario dalla scomparsa avvenuta un freddo 12 dicembre 2001, ha deciso di andarsene semplicemente per potersi gustare una delle squadre italiane più forti di ogni tempo – la corazzata di Massimo Moratti capace in sei anni di conquistare qualcosa come tredici trofei che, seppur i ragazzi dell’annebbiato mister Benitez paiano da circa un mese e mezzo patologicamente involuti e psicofisicamente a pezzi, tra una settimana ad Abu Dhabi potrebbero diventare quattordici – dalla miglior postazione possibile: il Paradiso.
Un luogo che, nelle ultime stagioni assai ricche di soddisfazioni, i sostenitori della Beneamata hanno metaforicamente spesso toccato con un dito e a cui, ricordando appunto il celebre Peppino ed il giocatore a lui maggiormente simpatico (il monumentale Giacinto Facchetti), nelle ore del trionfo hanno immancabilmente indirizzato la loro affettuosa dedica.
Un tifoso tra i tifosi, il più tifoso dei tifosi: questo e molto altro è stato Prisco, un nome difficilissimo da citare senza obbligatoriamente avvicinarlo alla parola Inter, come dire Rimini senza menzionare i vocaboli mare e discoteca.
Nato a Milano il 10 dicembre 1921 da padre partenopeo (anch’esso principe del foro) e madre settentrionale, sottotenente degli alpini ad appena diciannove anni con medaglia d’argento al valor militare attribuitagli in seguito alla terribile campagna di Russia cui era miracolosamente sopravvissuto, laureato in giurisprudenza nel 1944 e presidente dell’Ordine del capoluogo lombardo dal 1967 al 1982: tre grandissimi amori – la famiglia, la penna nera, la professione – ai quali da sempre se ne accostava un quarto, indelebilmente tinto dai colori della più nobile compagine meneghina, società per la quale da bambino perse appassionatamente la testa e nella quale nel 1950 entrò nel Consiglio con la carica di segretario, prima di divenirne ininterrottamente vicepresidente a partire dal luglio 1963, quando Angelo Moratti, legato a Peppino da un sincero rapporto di affetto e stima reciproca, lo nominò tale.
L’Inter ha davvero rappresentato la sua vita: adorata per settant’anni, dove, oltre che per i moti gioiosi dovuti alla collezione di trofei che periodicamente il Biscione gli regalava, si è spesso reso celebre per le spettacolari battute di pungente, arguta e mai volgare ironia riservate alle due antagoniste storiche Juventus e Milan, che nelle ultime stagioni, tra la rovinosa caduta in Serie B della Vecchia Signora (che, senza faccendieri di sorta, non è più in grado di vincere nulla e per questo motivo reclama dissennatamente i tricolori altrui) e gli ampi ritardi in classifica accumulati sui pentascudettati “cugini” da parte dei rossoneri, gli avrebbero sicuramente offerto l’input per nuove, geniali e sferzanti stoccate.
Stoccate però inferte con un umorismo leale e piacevole riconosciutogli persino dai rivali, tanto che nessuno, in quasi metà secolo, ha mai parlato di lui se non in termini rispettosi e positivi: seppur pungolati dai suoi sarcasmi, tutti recavano per il competente dirigente ambrosiano l’ammirazione che si doveva ad un uomo acuto che viveva il calcio con genuina partecipazione, stile combattivo ed inestinguibile estro satirico.
Comportamenti lontani chilometri dalla becera acredine vomitata dai parecchi e sovente trascurabili personaggi che, con le loro arroganti prese di posizione puntualmente accoppiate ad una disarmante pochezza di reali argomentazioni in merito, grazie a media compiacenti han l’occasione d’infestare il mondo pallonaro attuale.
“Prisco, in una visione popolaresca, ha impersonificato l’Inter più dei suoi presidenti. Non ha concesso spiragli alla sua fede nerazzurra: mai. Ha perseguitato gli avversari, soprattutto Milan e Juve, con le più diaboliche invenzioni dialettiche“: questo, contenuto in un editoriale dal titolo “Onore e grazie al primo tifoso d’Italia”, il premuroso saluto tributato dall’amico ed allora direttore della Gazzetta dello Sport Candido Cannavò, capace, in poche righe, di riassumere al meglio l’animo colto ed agguerrito dell’avvocato-alpino.
Un animo passato alla storia anche per esser riuscito nell’incredibile impresa di far rigiocare una gara di coppa Campioni catastroficamente persa 7-1 dalla sua amata: un’opera da sonori applausi, seppur quel match contro il Borussia Monchengladbach fosse stato palesemente falsato dalla lattina di Coca Cola che un supporter di casa, intorno alla mezzora e sul risultato di 2-1 per i tedeschi, scagliò all’indirizzo della testa dell’attaccante ospite Roberto Boninsegna, il quale, stramazzato al suolo, fu costretto ad uscire in barella.
Un’opera da sonori applausi principalmente perché, non esistendo ancora – a livello UEFA – la regola che comportava la sconfitta a tavolino per la società ritenuta oggettivamente responsabile degli atti teppistici dei propri sostenitori, il ferratissimo legale bauscia schierato dinanzi alla Commissione Disciplinare di Ginevra conseguì il capolavoro di legiferare in materia e far quindi ripetere il funesto incontro disputato in Germania: così, dopo aver vinto 4-2 la partita di ritorno che nel frattempo era divenuta quella d’andata, l’eroico 0-0 ottenuto sul neutro di Berlino il primo dicembre 1971 diede il pass ai milanesi per proseguire il cammino europeo. Un percorso interrottosi soltanto in finale, sei mesi più tardi, di fronte al poderoso Ajax di Johann Cruijff.
In tribunale o davanti al microfono di un giornalista, il garbato spirito battagliero e senza peli sulla lingua di Peppino emergeva di continuo. “Inter-Juventus termina spesso con delle lamentele contro l’arbitro: il guaio è che sono sempre le nostre” era a sottolineare con amaro sarcasmo parlando delle accese sfide con il club bianconero; addirittura epiche – e assai più numerose – sono divenute nel tempo le punture riservate ai “cugini”, per cui Prisco nutriva una rivalità particolare nata dal fatto di condividere la stessa città (dove, si sa, i successi di una squadra sono i tormenti dell’altra): tra le tante, impossibile non ricordare frasi come “la Serie B non è nel nostro codice genetico, a differenza del Milan che ci è invece finito due volte: la prima a pagamento, la seconda gratis” oppure “la fondazione dell’Inter, operata da alcuni soci scissionisti rossoneri, è la testimonianza che nella vita, se hai buona volontà e ti impegni al massimo, puoi arrivare al top pur partendo da umili origini” o “il mio sogno? Vincere un derby allo scadere grazie a un gol segnato in fuorigioco o con la mano. Meglio se in fuorigioco e con la mano“.
Il tutto proferito con un doveroso sorriso sulle labbra, caratteristica imprescindibile di una persona che si era seriamente vista la morte in faccia durante la drammatica spedizione russa e perciò, avendo ben impresso in mente questa immane sciagura che aveva lasciato superstiti tre soli ufficiali degli iniziali cinquantatré partecipanti, era tornata a casa felice anche di un singolo respiro: da qui, fondamentalmente, scaturiva la gioiosa e fanciullesca forza d’animo dello storico vicepresidente della Beneamata che, tipo un adolescente qualunque, alla veneranda età di ottanta primavere conservava nel portafoglio, in mezzo a quella degli adorati genitori, la fotografia di Ronaldo (assieme a Meazza, secondo l’avvocato, il più forte di sempre), un campione che, come ad esempio accaduto di recente all’uomo simbolo della fallita “Remuntada” catalana Zlatan Ibrahimovic, dopo essere stato per anni elevato ad incontrastata icona nerazzurra ha opportunisticamente pensato di trasferirsi, esaurita l’intermedia esperienza spagnola, sull’altra sponda del Naviglio.
Peppino, per tale irriguardoso e declassante gesto, dall’alto della sua preziosa arte ironica lo avrebbe probabilmente liquidato con l’identico motto utilizzato per commentare la farsa messa in atto dal Milan nella vergognosa notte di Marsiglia datata marzo 1991: “se dovessi difenderlo per quello che ha fatto, chiederei la perizia per incapacità d’intendere e di volere“.
La squadra del Diavolo, una volta ancora, beffata con una battuta da Paradiso: privilegiato posto dal quale, dopo aver vissuto da protagonista l’epopea della mitica compagine di Helenio Herrera, Prisco si è potuto godere una nuova e meravigliosa Grande Inter.