I grandi vecchi del pallone, i grandi saggi, quelli che la palla è rotonda, quelli che si gioca in undici e non da soli, quelli che è meglio giocare in dieci che in undicilo sanno bene che non è vero.
Non è vero che nascono ogni vent’anni i veri campioni.
Che grazie a Dio non bisogna aspettare due decenni per provare quella sensazione che spiegare a parole sarebbe riduttivo, le toglierebbe significato..la stessa che ti fa stare in piedi per tutta la gara.
Pelè nel ’40, Maradona nel ’60 e Ronaldinho nell’ ’80 sono accompagnati, presi per mano da giocatori che, come loro, hanno cambiato la storia del calcio e dello sport.
Storie di vite e di uomini di un altro pianeta. Cosa dire di Best del ’46 che riuscì a farne sei in una partita di coppa, che incantò l’Europa nel ’68 vincendo la Coppa dei Campioni con una facilità di dribbling tanto naturale quanto sfacciata.
Che insulto sarebbe non nominare Zidane del ’72;
lo sanno per primi i bambini che provano ad imitarlo;
per dieci anni Zidane è stato il calcio, ha insegnato.
Un giorno di febbraio del ’67, un po’ prima di Zizou e un po’ dopo il Beatle, tra Platini e Ronaldo e cento altri ancora nasce Baggio.
Nelle scuola-calcio si mettono i dvd di Roby e si sta zitti. Parla lui. Si gioca cosi. Parlano per lui le cifre, più di 200 gol in serie A in una striscia infinita di presenze.
Ma se per un attimo, soltanto un istante ci illudiamo che siano sufficienti un paio di numeri per definire
Roberto Baggio di calcio ne capiamo davvero poco.
Se realmente è cosi, apparteniamo alla categoria dei tifosi dei mediani ruvidi, degli amanti delle entrate dure, dei sostenitori del fallo tattico.
Roby Baggio in campo era poesia.
Non importava con quale maglia, ne ha cambiate molte ed ha lasciato molte volte il segno. E importava ancora meno in quali condizioni il divin codino entrava nel rettangolo di gioco, sempre perseguitato da quelle ginocchia che non volevano saperne di stare bene. Estati italiane, si entra al bar per vedere la Nazionale..domanda spontanea..”gioca Baggio?”..e l’amico: “c’è si, ma è al 50%” .. occhi più sicuri.. “si ma c’è”.
Era contagioso, non potevi fare a meno di stare in piedi mentre dava del tu al pallone, faticavi a soffocare la voglia di metterti le scarpe ed andare fuori a giocare.
Deve essere la stessa sensazione che faceva a Carletto Mazzone, che se avesse potuto adottarlo..
Un giorno del 2004, di maggio, decide che per le ginocchia è arrivato il momento del meritato riposo, la mente deve uscire da quel mondo fatto di tante polemiche e poco gioco e per lui è arrivato il momento della famiglia e della caccia nelle distese argentine; decide di uscire di scena in un Milan-Brescia.
San Siro tutto in piedi applaude, e con lui tutta l’Italia, Maldini lo abbraccia, e con lui tutta l’Italia.
Non si capisce come, mentre lascia il campo in standing ovation già ci manca. Fantastico.
Come sono lontani i tempi in cui si allenava da solo in un campo di periferia, ad anni luce dalla serie A.
Come sono sbiaditi i ricordi delle numerose operazioni alle ginocchia, cosi fragili, e delle impegnative riabilitazioni. E come sono vicine le giocate a liberare il compagno, gli assist senza guardare, i “dribbling secco e gol”, le punizione a telecomandate a girare, altroché se giravano.come sono vicine…